U 'mbitu di Taurianova e le cerimonie del fuoco dell'Antica Grecia

08.09.2018

Nella pagine di questo blog abbiamo imparato a conoscere molti luoghi della Calabria, più o meno noti, e abbiamo presentato le storie a essi legate: i castelli arroccati sulle cime delle alture, i borghi abbandonati dopo devastanti eventi sismici, le chiesette bizantine retaggio del lontano medioevo calabrese.

Con il racconto di oggi, invece, non presentiamo un luogo, ma un rito talmente radicato nella comunità di appartenenza da farci domandare quali fossero le sue reali origini. Con questo interrogativo ci siamo recati, il 29 agosto, a Taurianova (RC) nella piana di Gioia Tauro e il rito a cui ci riferiamo è "U 'mbitu".

La pira di lupini allestita in Piazza Macrì di fronte alla Chiesa Matrice
La pira di lupini allestita in Piazza Macrì di fronte alla Chiesa Matrice

"U 'mbitu" si tiene ogni anno e apre i nove giorni al termine dei quali avranno luogo i festeggiamenti in onore della Madonna della Montagna, patrona della città. È un rito fortemente sentito dai cittadini che oggi lo riconducono alla tradizione cattolica, ma non è sempre stato così. Le sue origini, infatti, non risiedono nel Cristianesimo e per scoprirle dobbiamo compiere un viaggio, solcando il mare su cui si sono cimentati per secoli navigatori temerari e riavvolgendo il tempo: compiendo un balzo di oltre duemila e cinquecento anni per giungere in una regione dell'Antica Grecia, la Beozia, dove una cerimonia del fuoco detta Daidala dava l'avvio a quel processo di transfert culturale che sta all'origine dell'odierno "'mbitu".

Le cerimonie del fuoco dell'antica Grecia e "U 'mbitu" presentano molti tratti in comune sia dal punto di vista della ritualità che del significato simbolico attribuito. 

In piazza Macrì, a Taurianova, di fronte alla Chiesa Matrice, viene allestita ogni anno una pira di "luppinazzi", grandi fasci di lupino secchi, che vengono fatti ardere su una base di sabbia. Dopo la Messa, il sindaco e il parroco accendono la pira, i cosiddetti portatori alimentano il fuoco aggiungendo altri fasci secchi mentre i fedeli si stringono intorno al falò in attesa che le fiamme si estinguano. Il rito è chiuso dai giochi pirotecnici che animano di colori sgargianti il cielo buio.

Nonostante la sua estrema semplicità formale, "U 'mbitu" riesce a coinvolgere i cittadini che vi prendono parte, esercitando ancora un elemento coesivo e di aggregazione sociale particolarmente forte. Già nel Settecento il rito era praticato con le stesse modalità di oggi. Tuttavia non aveva un significato religioso, ma solo socio-economico in quanto avvisava i pastori che era giunto il tempo di stipulare i contratti agrari.

È giunto il momento di fare un passo indietro.

La pratica di onorare una divinità tramite un grande falò è ampiamente testimoniata nell'Antica Grecia. L'autore greco Pausania, nella sua opera Periegesi della Grecia, ha tramandato il racconto di uno dei falò più antichi e più intriganti. Nel libro IX dedicato alla Beozia, infatti, Pausania racconta i Daidala che si tenevano a Platea presso il tempio consacrato presumibilmente ad Hera e narra la vicenda che ne fu all'origine. 

Secondo la leggenda, Hera stanca dei continui tradimenti del marito Zeus, avrebbe deciso di abbandonare il monte Olimpo e di ritirarsi in Eubea.

Zeus, conoscendo il carattere volitivo della sua sposa, cercò di riconciliarsi con l'inganno; annunciò le sue imminenti nozze con la figlia del re Asopo e diede avvio ai preparativi. Il giorno del matrimonio fece approntare un carro su cui sistemò una statua lignea, detta "eidolon".

Quando la notizia giunse ad Hera, la dèa corse a impedire le nozze illegittime e una volta resasi conto del tranello, divertita dall'espediente, si sarebbe riconciliata con il marito.

Una altra versione del mito, raccontata da Plutarco, aggiunge un elemento in più alla vicenda: Hera perdonò Zeus, ma solo dopo aver distrutto la statua lignea con il fuoco e aver decretato che ogni anno doveva essere celebrata una festa che ricordasse a Zeus la sua promessa di fedeltà e al contempo commemorasse la loro riconciliazione. Da allora i Daidala, così si chiamò la festa dal nome della statua lignea bruciata, divennero la festa della riconciliazione. La liturgia era molto complessa e si componevano di due momenti distinti. Nel primo i fedeli si recavano nel bosco di Alalcomene e sceglievano l'albero da cui ricavare la statua lignea; nel secondo la statua lignea era portata in processione insieme a una sacerdotessa fino alla cima del Citerone dove il culmine della cerimonia prevedeva che la statua ardesse in un grande falò.

I Daidala sono sostanzialmente dei riti agrari in cui la cerimonia del fuoco serviva a eliminare le energie negative e come auspicio per un raccolto abbondante. Cerimonie del fuoco avevano luogo in molte altre città della Grecia antica come Patrasso, Hyampolis, Tebe e sul Monte Oeta dove si praticava il culto di Eracle.

"U 'mbitu" ancora nel Settecento si svolgeva seguendo pedissequamente questa ritualità pagana e mantenendo perfino lo stesso significato: era un rito propiziatorio per un abbondante raccolto con una forte componente coesiva per le genti che vi partecipavano. 

Duemila e cinquecento anni dopo i Daidala, quindi, la medesima cerimonia del fuoco si ripete in un paese della Calabria come retaggio di un sostrato culturale più antico. La tradizione delle cerimonie del fuoco sono giunte in Calabria veicolate da genti greche tramite la colonizzazione dell'VIII secolo a.C. e sono attecchite nella regione sottoforma di tradizioni popolari. La religione cattolica ha poi adottato questi rituali per intero, per continuità con il passato, e ha cambiato solo il destinatario della celebrazione: non più un adirato dio greco, ma un santo del pantheon cristiano. 

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Esplorando dietro casa

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